Aconito napello: un veleno mortale
La fama dell’Aconito è antichissima; vollero infatti le leggende greche che la pianta fosse nata dalla schiuma di Cerebro e poi scoperta da Ecate, divinità del mondo sotterraneo, la quale la somministrò, mescolata negli alimenti, ai disgraziati forestieri che capitavano nella sua dimora. Questi esperimenti non erano del tutto nuovi in quel tempo poiché anche Mitridate, re del Ponto, coltivava l’aconito e lo sperimentava su se stesso per potersi lentamente abituare ai veleni ma soprattutto lo somministrava ai suoi avversari politici.
Il primo documento che spiegò le caratteristiche botaniche della pianta, apparve nel 300 a.C. ad opera di Teofrasto il quale, nel IX libro della Historia plantarum, chiarì anche l’etimologia del nome ricordando che la pianta prese il nome da Acona, città della Bitinia, dove era fama che crescesse con particolare abbondanza.
Nella prima metà del 1500 nacquero i primi tentativi di ricerca sui sintomi d’avvelenamento e sui possibili antidoti. Fu Mathiae de Lobel che coltivò l’aconito a Montpellier nell’orto del farmacista Hermet e lo sperimentò sugli animali per verificarne le proprietà tossiche, mentre Amedeo VIII il guarniero ci narra di esperimenti fatti sull’uomo e racconta di un filosofo alla corte dei duchi di Borgogna, che aveva inventato una specie di “theriaca” a base di bacche di lauro, che doveva servire come antidoto nell’avvelenamento da aconito.
Verso la metà del sec. XVIII il botanico svedese Carlo Linneo classificò la pianta dandole una precisa collocazione nel regno vegetale inserendola nelle famiglia delle ranuncolacee e uscì con una clamorosa affermazione che venne pubblicata nella sua opera Flora Lapponica dove egli narrò, non senza una certa meraviglia, che l’aconito in Lapponia non era velenoso e che anzi gli abitanti di quelle regioni ne mangiavano i germogli come da noi si mangiano gli asparagi.
Tutto è veleno: nulla esiste di non velenoso. Solo la dose fa in modo che il veleno non abbia effetto.
Paracelso
Fu allora che la pianta cominciò a interessare la farmacoterapia e si fecero i primi esperimenti della droga come medicamento. Il medico viennese Stork infatti, nel suo Libellus del 762 sperimentò su sé stesso che la polvere di aconito assunta a dosi graduali per 20 giorni non dava alcun inconveniente se non una profusa sudorazione in tutto il corpo, al che Stork dedusse che l’aconito poteva essere usato impunemente ed anzi ne esalto le proprietà diuretiche, narcotiche, antinevralgiche ed anti gottose.
Ci volle la ricerca farmacochimica per risolvere tutte le contraddizioni relative agli impieghi della pianta, e bisognò arrivare fino alla seconda metà dell’800, tempo in cui il chimico tedesco Albert Hesse isolò per la prima volta dall’intera pianta un alcaloide denominato aconitina.
Contemporaneamente venne pubblicato un formulario di posologia medico-pratica ad opera di Cotterau, farmacista e docente di farmacologia a Parigi, dove venne citata la tintura 1:10 di aconito come medicamento narcotico.
I tuberi di aconito raccolti nella stagione autunnale contengono una percentuale che varia dallo 0,2 allo 0,8%, a seconda della specie di piante, di aconitina, un alcaloide steroideo considerato uno dei più forti veleni la cui dose mortale si aggira intorno ai mg 1-4.
Agisce irritando e poi paralizzando le terminazioni nervose, cosicché ingerito provoca vomito e irritazione della mucosa. Agisce anche sul centro circolatorio e respiratorio e sui centri motori provocando tachicardia, dispnea, paralisi e convulsioni.
A contatto con le terminazioni di senso le stimola prima e le paralizza poi, per cui agisce prima come convulsivo riflessogeno e poi come anestetico.
Fonti:
E. Riva, L’universo delle piante medicinali, Tassotti editore, 1995.